Introduzione di Andreotti al Colloqium "Cicerone e lo Stato". Varsavia 1989
Nella storia del nostro Centro Sudi Ciceroniani il Colloquium che oggi si apre qui in Varsavia, alla presenza così gratificante dei Presidenti delle Repubbliche Polacca e Italiana, rappresenta un momento di massimo fulgore. Esso ripaga il lavoro, non tanto mio quanto del professor Mariotti e del Consiglio, per tenere alto il prestigio del Centro. E pur in una rigorosa attenzione per salvaguardare il carattere esclusivamente culturale delle nostre iniziative, a nessuno sfugge che l'appuntamento in Polonia è stato aiutato e forse reso possibile da una evoluzione politica che il mondo intero ha salutato con soddisfazione e di cui tutti auspichiamo consolidamento e sviluppo.
Vi è, d'altra parte - ed in un contesto più vasto – la necessità di vivificare l'approfondimento di uno dei grandi valori con cui vanno costruite le linee caratteristiche di quella “casa comune europea” che non è, e non potrebbe essere, un edificio soltanto politico. Ci ispiriamo alla necessità di contribuire a far riprendere con alacrità e profitto lo studio “litterae latinae et humanitatis” a stimolare il quale Giovanni Paolo II, da poco eletto Papa, richiamò i giovani citando proprio un passo di Cicerone: “Non è tanto importante sapere il latino, quanto è turpe il non saperlo” (Brutus,37, 140). ma c'è di più. Studiosi che hanno attraversato l'Oceano Atlantico per venire qui a Varsavia ci attestano che la latinitas è viva anche nel nuovo mondo. E siamo lieti di preveder il Colloquium Tullianum del 1991-92 presso una delle più prestigiose Università degli Stati Uniti d'America.
Quest'anno, dall'enciclopedico insegnamento ciceroniano, abbiamo tratto un tema suggestivo: la concezione dello Stato. Si badi: noi non siamo degli indiscriminati ammiratori di Cicerone, né come uomo né come scrittore. Vorrei con un esempio che non scelgo a caso nella città che vide il massacro del Ghetto e l'olocausto di milioni di ebrei, dire come sia squallida la definizione contenuta nella orazione Pro Flacco (Cf Pro Flacco, 66-69) di barbara superstizione riferita agli israeliti dell'Asia che inviavano l'obolo al Tempio di Gerusalemme. Ma nella intelaiatura centrale del pensiero dell'Arpinate sulla vita della societas, noi ammiriamo una robustezza di principi la cui validità non si attenua minimamente con il decorso dei secoli. Anzi si può con rigore scientifico dimostrare che proprio quando questi principi si affievoliscono o vanno in eclissi, le condizioni di una o più Nazioni precipitano verso gravissime crisi.
Non sta certamente a me e in questo momento inaugurale di addentrarmi in materia. Mi siano solo consentite poche note introduttive.
Mi riporto particolarmente al De re publica e al De officiis.
Per Marco Tullio l'impegno politico rappresenta l'impegno più nobile che un uomo possa fare della sua virtù; l'applicazione pratica, e quindi tanto più meritoria, di tutti i principi morali che i filosofi hanno enunciato. La patria richiede che ad essa dedichiamo la parte migliore di noi stessi. “La Natura ha dato al genere umano un così grande bisogno di virtù e un così grande desiderio di difendere la salvezza comune che tale forza può prevalere su tutte le attrazioni del piacere e dell'ozio”. (De re publica 1,1,1)
“La patria non ci ha dato nascita ed educazione, senza aspettarsi di ricevere da noi in cambio qualche sostentamento; né è stato solo per servire ai nostri comodi che ha fornito un tranquillo riposo al nostro ozio e un luogo sereno al nostro riposo; al contrario ci ha dato questi vantaggi perché possa volgere a suo uso la maggiore e più importante parte del nostro coraggio, del nostro talento e della nostra saggezza, lasciando a nostro uso privato solo tanto quanto può rimanere dopo che siano state soddisfatte le nostre necessità”. (De re publica 1, 4, 8)
“Noi non siamo nati solo per noi, ma del nostro essere una parte la rivendica la patria ...” (De officiis 1, 32, 49)
Lo Stato è proprietà del popolo, inteso non come raggruppamento casuale di persone, ma come insieme di cittadini riuniti nel rispetto del diritto e consociati nella ricerca del bene comune. “Che cosa è infatti uno Stato se non una societas nel diritto?” (De re publica 1, 32, 49)
Ci sono tre forme di governo: monarchia, aristocrazia e democrazia. Tutte e tre, di per se stesse, non sono buone perché tendono con facilità a degenerare e a trasformarsi rispettivamente in tirannide, oligarchia preoccupata solo di salvaguardare interessi particolari; demagogia o sedizione. Lo Stato ideale risulta dal contemperamento di queste tre forme, contemperamento che si era abbastanza realizzato nell'ordinamento della repubblica romana: “Questa costituzione in primo luogo offre in larga misura quell'eguaglianza della quale gli uomini liberi non possono fare a meno a lungo; in secondo luogo è stabile … non c'è infatti motivo di cambiamento quando ogni cittadino è saldamente collocato al suo posto, sicché non vi è alcuna forma degenerata in cui tale costiotuzione possa precipitare o decadere”. (De re publica 1, 45, 69)
Fondamento della concezione ideale dello Stato sono quei principi che da sempre hanno attratto su Cicerone l'ammirazione universale: la giustizia da applicare a tutti gli uomini; la moderazione da usare anche nei riguardi del nemico e nella gestione dei territori sottomessi; la condanna di ogni violenza e di ogni guerra, sempre detestabile quando non sia imposta dalla salvaguardia della pace; la solidarietà sociale per la quale si viene incontro ai bisognosi; l'amore reciproco degli uomini.
Base della società civile è la giustizia “nella quale è lo splendore massimo delle virtù e per la quale gli uomini dabbene sono chiamati tali” (De officiis 1, 20). La vera legge è la giusta ragione in accordo con la natura: “Una legge eterna e immutabile sarà valida per ogni nazione e per ogni tempo e sempre ci sarà un maestro e una guida su tutti noi, cioè Dio, poiché egli è autore di questa legge, il suo promotore e giudice. Chi ad essa disobbedirà fuggirà se stesso e negherà la sua natura umana e per questo soffrirà le massime pene, anche se riuscirà a sfuggire quelle che comunemente sono considerate le altre punizioni”. (De re publica 3, 22, 33). La giustizia va osservata anche e soprattutto nei confronti dei più umili, anche gli schiavi “poiché vi è un tipo di ingiusta schiavitù, quando quelli che sono capaci di autogovernarsi sono sotto il dominio di altri” (De re publica 3, 26, 38). Nell'esercizio della giustizia è necessario un impegno attivo: “Due sono le specie di ingiustizia: la prima è di quanti la commettono, la seconda di quanti, pur potendo, non tengono lontana l'ingiustizia da coloro contro i quali è commessa” (De officiis 1, 23)
Non vi può essere uno Stato ben ordinato se esso non è in grado di assicurare la concordia fra gli elementi che lo costituiscono, l'armoniosa interdipendenza fra le classi, che genera una situazione di pubblica tranquillità. “Come nella musica delle arpe e dei flauti o in un coro di cantanti, bisogna conservare un'armonia dei diversi suoni, e la sua interruzione o violazione è intollerabile all'orecchio esercitato; e come questo perfetto accordo e questa armonia sono prodotti dalla proporzionata unione di suoi differenti, così lo Stato è reso armonioso dall'accordo di elementi dissimili, prodotto da una giusta e ragionevole fusione delle classi superiori, medie e inferiori, come se fossero armonie musicali. Ciò che i musicisti in una canzone chiamano armonia, quella è la concordia di uno Stato, il legame più forte e valido di unione permanente in ogni società, e questa concordia non può essere ottenuta senza l'aiuto della giustizia” (De re publica 2, 52, 69).
E ancora questo passo tratto dal De lege agraria: “Consideriamo tutto ciò che è gradito e caro al popolo: troveremo che niente è tanto popolare quanto la pace, la concordia, la tranquillità” (De lege agraria 1, 23). “L'armonia è facilmente raggiungibile in uno Stato dove gli interessi di tutti sono gli stessi, poiché la discordia nasce dal conflitto degli interessi, dove misure differenti sono vantaggiose per cittadini differenti” (De re publica 1, 33, 48).
Fine dello stato deve essere il conseguimento del bene comune. È necessario quindi che gli interessi dei singoli siano subordinati a quelli dell'intera comunità e che l'interesse del singolo coincida con quello dello Stato. “Uno solo deve essere il fine che tutti gli uomini devono proporsi e cioè che identica sia l'utilità di ciascuno e di tutti; se questa utilità ciascuno la trarrà a sé ne andrà distrutto tutto l'umano consorzio” . “Come se ciascun membro del nostro corpo concepisse nella mente l'idea di poter migliorare il proprio stato, traendo a sé il vigore del membro vicino, sarebbe inevitabile che il nostro corpo si indebolisse e perisse, così se ciascuno di noi trae a sé i beni degli altri e toglie quello che può a ciascuno per proprio vantaggio, è inevitabile che la società umana e l'umana solidarietà vadano distrutte (De officiis 3, 22).
Alla guida dello Stato ideale, sarà lo statista ideale che, dimentico del proprio interesse e di quello della sua parte, si preoccuperà solo di perseguire la pubblica utilità, di assicurare la concordia, di agire secondo la giustizia, cioè governerà lo Stato retto dalla virtus. “Che vi può essere di più nobile del governo dello Stato secondo la virtù? Poiché allora l'uomo che governa gli altri non è schiavo di alcuna passione, ma già ha conseguito quelle qualità alle quali guida ed esorta gli altri. Un simile uomo non impone al popolo leggi alle quali non obbedisce egli stesso, ma mostra come legge ai suoi concittadini la sua stessa vita” (De re publica, 1, 54, 32). “Coloro che si propongono di pretendere il governo dello Stato tengano a mente questi tre precetti di Platone: primo, di tener presente l'utile dei cittadini in modo che, qualunque cosa facciano, la facciano in vista di questo, senza riguardo ai propri privati interessi; secondo, di prendersi cura di tutto quanto il corpo dello stato perché mentre servano gli interessi di una parte, non trascurino le altre; terzo, egli dovrà dedicarsi tutto allo stato senza cercare di conseguire ricchezza o potenza per sé, ma dovrà servire gli interessi dell'intero Stato, così da provvedere a tutti i cittadini” (De officiis 1, 35-36).
È a questi principi che pur con esigenze tecniche e sociali tanto mutate ai nostri giorni ogni Nazione deve ispirarsi. Ed è per questo, signori Presidenti, Signore e Signori, che non possiamo non dirci ciceroniani.