Intanto nella DC (1976-1979)
Il temuto “sorpasso” sulla DC da parte del PCI, nelle elezioni del 1976 non avviene. La DC “tiene” con il 38,7 per cento dei voti. Un risultato notevole, considerando le condizioni di difficoltà in cui si trovava il partito, frutto di un grande sforzo di coinvolgimento di settori nuovi della opinione pubblica (simbolica la candidatura al Senato nelle liste DC di Umberto Agnelli), ma anche del timore di un successo comunista diffuso in larghi strati della popolazione (è di questa campagna elettorale lo slogan di Indro Montanelli “turiamoci il naso e votiamo DC”). Il PCI, dal canto suo, raggiunge il 34,1% mentre il PSI non va oltre il 9,6%. Ne deriva una situazione bloccata, anche perché i socialisti, con il congresso del Midas del luglio ’76 imboccano con il nuovo segretario Craxi la strada dell’autonomia e si negano ad accordi di governo con la DC. Uno scenario tanto più grave a fronte di una condizione economica allarmante, di violenze estremiste dilaganti e di una minaccia terrorista fatta di uccisioni e ferimenti che porteranno a parlare di questi come degli “anni di piombo”.
Aldo Moro lancia una nuova strategia per la Democrazia Cristiana. Parla di “terza fase”, dopo il centrismo e il centrosinistra, e di “confronto” con il PCI, l’altra grande forza politica confermata dal voto. La sua opera di convincimento e di mediazione supera le forti resistenze all’interno del partito e favorisce un atteggiamento di disponibilità delle opposizioni e soprattutto del segretario comunista Berlinguer. Nasce la “solidarietà nazionale”. Questa linea trova un abile esecutore in Giulio Andreotti. Del luglio 1976 è il suo governo della “non sfiducia”, fondato sull’astensione della gran parte delle opposizioni. La reputazione internazionale di Andreotti vale a rassicurare gli alleati, timorosi – soprattutto all’interno della NATO – di un ingresso del PCI nell’area governativa, mentre la sua abilità diplomatica gli consente di guidare l’esecutivo fra i molti condizionamenti posti dalla inedita formula di governo e di fronteggiare la difficilissima situazione del Paese. Una formula che si evolve con l’“accordo programmatico” del luglio 1977 e, all’inizio del 1978, con l’ulteriore passo dell’ingresso nella maggioranza da parte del PCI, in difficoltà in un ruolo che non è di governo ma non è più nemmeno di opposizione.
Forti i contraccolpi all’interno della Democrazia Cristiana dove ampi settori non sono d’accordo con l’apertura a sinistra in atto. È sempre Moro il garante dell’unità del partito con i suoi fermi richiami alla responsabilità di fronte al Paese in un momento difficile, ma anche con la sua orgogliosa difesa della DC e del suo ruolo. Memorabile in tal senso il discorso tenuto da Moro alla Camera in occasione del dibattito sul caso Lockheed e sulla richiesta di autorizzazione a procedere per Luigi Gui.
L’uccisione di Aldo Moro nel marzo 1978 fa seguito a settimane di tormento all’interno del partito, lacerato fra l’angoscia per la sorte del leader rapito e la consapevolezza di non poter cedere al ricatto delle BR, e angustiato dalle lettere scritte da Moro dalla prigionia. E non poteva non avere gravi conseguenze politiche. La DC perde il grande punto di riferimento, l’uomo che più di ogni altro era stato capace di indicare la rotta e garantire l’unità interna. La scena politica nazionale perde il mediatore, il principale artefice e garante della “Solidarietà nazionale”, che infatti non regge a lungo alla sua mancanza. Nel gennaio 1979 il governo Andreotti entra in crisi e ci si avvia, con un nuovo esecutivo elettorale, al voto anticipato del giugno 1979.