Intanto nella DC (1972-1976)
I risultati elettorali del 9 maggio 1972, con la crescita del Movimento Sociale Italiano ai danni della DC, pongono per i dirigenti democristiani il problema del recupero dei voti “in libera uscita” (come li definisce Andreotti) verso destra. Si avverte la necessità di un rilancio della rappresentanza dei ceti medi - tradizionale bacino elettorale dc - in un momento di particolari difficoltà economiche, di tensioni sociali, di preoccupazioni per l’ordine pubblico e per la stessa sicurezza democratica. Al tempo stesso, i socialisti, penalizzati dal voto, prendono le distanze dall’alleanza di centro sinistra. Nasce così l’esperienza di governo “triciclo” Andreotti-Malagodi, nel quale non entrano il PSI né il PSDI mentre accanto al PRI torna in maggioranza il Partito liberale.
Ma è una fase circoscritta. All’interno della DC torna a prevalere la linea dell’intesa con i socialisti, legata a una politica economica e sociale maggiormente espansionistica, per fronteggiare la crisi anche a costo di appesantimenti del bilancio pubblico. Si giunge all’accordo di Palazzo Giustiniani (aprile 1973), promosso da Amintore Fanfani, che prevede un nuovo governo di centrosinistra guidato da Mariano Rumor con Moro alla presidenza della Camera (ipotesi poi saltata per la ferma opposizione di Sandro Pertini, presidente in carica: Moro andrà agli Esteri) e Fanfani stesso alla segreteria della DC in sostituzione di Arnaldo Forlani. L’accordo, che significa la sconfessione di Forlani e Andreotti, viene accettato anche da questi per evitare spaccature e ratificato – pur con scarso entusiasmo – dal successivo congresso democristiano (Roma, giugno 1973).
Rumor vara il suo quarto governo di centrosinistra cui ne seguirà un quinto dopo pochi mesi. Ma i tempi, rispetto agli anni d’oro della intesa DC-PSI, sono cambiati. Sul clima politico del Paese, poi, gravano le tensioni legate all’imminente svolgimento del referendum sul divorzio, con la DC sostanzialmente isolata e divisa al proprio interno. Il “no” espresso dagli elettori (dopo una campagna elettorale di forte appoggio al “sì” condotta dalla segreteria Fanfani) suona come una netta sconfitta per la DC: la fine del suo primato morale nel Paese. Ma il risultato referendario mostra anche un’Italia molto mutata e un mondo cattolico in profonda trasformazione. Fanfani reagisce proponendo una DC arroccata e impegnandosi in un rafforzamento organizzativo. Gli si contrappone Moro, che invece parla di un partito più attento ai cambiamenti sociali in corso e guarda a una linea nuova (di “confronto”) con le altre forze politiche, a cominciare dal PCI dove il segretario Berlinguer risponde con la teoria del compromesso storico.
I risultati delle elezioni in Sardegna, prima, e delle Regionali del ’75, poi, che vedono sfiorato il sorpasso della DC da parte del PCI, portano alla fine della segreteria Fanfani. Alla guida della Democrazia Cristiana sale Benigno Zaccagnini, sostenuto da Moro. L’“onesto Zac” viene confermato dal Congresso di Roma del marzo 1976, svoltosi un clima combattutissimo: per la prima volta il segretario del partito viene eletto direttamente dai delegati. Egli esprime per la base democristiana l’aspirazione a una rifondazione del partito all’insegna del rinnovamento politico e della pulizia morale. In questa prospettiva viene avviata un’azione di reclutamento di nuove energie e nuove personalità in quello che viene definito il mondo degli “esterni”.
In questo contesto, l’alleanza di centrosinistra non regge. Rumor getta la spugna (novembre 1974). Per fronteggiare la crisi viene chiamato Moro, il cui prestigio e la cui capacità di mediazione non riescono tuttavia a ottenere di più di un governo bicolore con il PRI. Ma dopo poco più di un anno, anche Moro deve rassegnarsi alle elezioni anticipate cui si giunge nel maggio 1976 con un monocolore da lui guidato.