I rapporti con il mondo arabo
Al convegno sulle diversità nel Mediterraneo tenutosi a Granada nel dicembre del 2005 l'assenza di conflittualità che aveva caratterizzato per molti secoli i rapporti tra Occidente e Oriente e stata l'oggetto di un dotto e documentato intervento di Samir Khalil Samir. A riprova del suo dire, il gesuita egiziano, professore di Scienze Religiose all' università San Giuseppe di Beirut aveva raccontato l'aneddoto di quel dottore della legge islamica, un faqih vissuto nel decimo secolo e originario dell'Andalusia che si era recato a Beirut per partecipare a una delle tante majlis alle quali convenivano per discettare di temi teologici non soltanto i musulmani ma anche i cristiani, gli ebrei e i non credenti. Egli era rimasto negativamente impressionato dal modo in cui le discussioni e confronti si erano svolti in quelle adunanze e il suo dissenso verso forme di libero confronto era andato ancora più aumentando nell'ascoltare un infedele esprimersi pressappoco così: "Voi musulmani non potete criticarci facendo appello ai vostri libri sacri od alla sacralità del vostro profeta per la semplice ragione che noi non crediamo né agli uni né all'altra". Lo stupore del giovane dottore andaluso si era trasformato in una vera e propria orripilazione allorché le dure parole dell'infedele avevano provocato, anziché l' esecrazione, l'applauso degli astanti.
Nel commentare l'episodio Samir Khalil Samir osservava che nel mondo arabo la tolleranza era stata per secoli una pratica piuttosto comune, dovuta alla forte influenza esercitata sulla società arabo-musulmana dall'umanesimo ellenistico; e osservava, altresì, che le tensioni provocate a partire dal decimo secolo dai seguaci dell'ortodossia nei confronti della Civiltà greco-romana si erano intercalate con lunghi periodi di enlightement e di apertura verso le influenze esterne.
A conferma del suo dire, il gesuita aggiungeva che, due giorni prima dell'incontro in Spagna, aveva avuto luogo alla Mecca un'assemblea nel corso della quale re Abdullah Aziz si era soffermato sulle sfide che il mondo arabo era chiamato a raccogliere dei rapporti al suo interno e con altre nazioni, sottolineando che fra esse la più importante era appunto quella di un Islam moderato tollerante e unito.
Ho richiamato questo episodio perché la nozione di tolleranza intesa non come acquiescenza supina, come qualcosa che opera a senso unico, ma, invece, come rispetto reciproco di punti di vista tra loro differenti, può aiutarci nel tentativo di declinare correttamente il pensiero e l'agire politico di Giulio Andreotti nei suoi rapporti con il complesso mondo arabo: dove la politica ha per lui quel significato teleologico non costretto da limiti di tempo di spazio e che Aristotele definiva come ricerca del bene comune o, per usare il linguaggio consono al protagonista di queste pagine, ricerca della Salus rei publicae come suprema lex.
I modi di fare politica si collocano entro I due seguenti sistemi: "vivendo giorno dopo giorno" oppure "guardando verso l'avvenire".
Chi pratica il primo modo reagisce alle evenienze in maniera "impetuosa", ignorando il contesto, talvolta complesso, entro cui queste evenienze accadono: insomma il suo comportamento non è molto diverso da chi, entrando a casa la sera, suppone di poter attraversare impunemente le stanze del suo appartamento senza attivare l'interruttore della luce elettrica. il rischio di "inciampare" nel buio è massimo! Per chi vive "giorno dopo giorno" l'Occidente è soltanto leggenda, storia, religione, sentimento, laicismo ma, soprattutto, anche se non vuole chiamarlo con il suo vero nome, imperialismo: un Occidente in cui Dio ha concesso la conoscenza dei mari e ha fatto in modo che il sole della virtù possa sorgere da questa parte dell'emisfero terrestre per illuminare l'Oriente. Insomma la civiltà ha la sua alba in Oriente, ma è nelle terre dell'Occidente che matura e dà i suoi frutti.
Per chi invece, come Giulio Andreotti, applica il secondo modo di fare politica, ci sono cose che vanno ancora comprese e attendono una soluzione, ma che, qualora debbano costituire una pietra d'inciampo sul cammino del perseguimento del bene comune, vanno gettate dietro le spalle nell'interesse di tutti.
Così, il riferimento al passato, specie a un passato lontano, diventa un'arma a doppio taglio: se può fornire punti di possibile convergenza, mostra anche quanto le strade percorse si siano divaricate nel tempo. Certo, la storia non va dimenticata ma bisogna guardare all'avvenire se si vuol costruire e se si vuole, anche, fare un'analisi di quello che è successo. Insomma, non si può vivere appesantiti dai fardelli della storia, soprattutto se questi ultimi finiscono per condizionare una politica attenta al presente e proiettata sul futuro.
Guardando le vicende del mondo arabo, l'attuazione di un progetto di pacificazione non è per domani e comporta, in ogni caso, un percorso comune che passa attraverso la reciproca accettazione delle differenze. Soprattutto colpe ed errori, così come meriti e valori, non possono essere facilmente attribuibili con supponenza a una parte soltanto.
“Ho ritenuto, e ritengo, che il mondo arabo -dice Andreotti- sia una grande realtà, con le sue convergenze e divergenze dal resto del mondo ma, un cammino insieme, anche se con accordi modesti, non di portata storica e clamorosi, sarebbe a mio avviso utile ad ambedue le parti. Se uno aspetta di fare la grande rivoluzione e la grande controrivoluzione non farà mai niente”.
A questo modo modo di fare politica ritengo che pensasse Giulio Andreotti quando il suo collega Yitzhak Shamir, di passaggio da Roma e, una volta, dal Lussemburgo, si appellava alla bibbia per ripercorrere le tappe della storia del popolo ebraico e, in particolare, di Mosè morente che col dito indicava a Giosué la terra di Canaan al di là del Giordano. E, forse, al ministro degli Esteri italiano veniva in mente quel passaggio del Libro dell'Esodo nel quale Mosè pregava il Signore di perdonare il suo gregge, reo di essere stato indotto da Aronne ad adorare il vitello d'oro.
Per la verità, di fronte allo sfoggio di conoscenza biblica da parte del collega israeliano, Giulio Andreotti, certo sensibile ai lucidi e intelligenti ragionamenti suo interlocutore, non era da meno. In un momento particolarmente delicato della crisi arabo-israeliana -siamo nell'autunno del 1988- aveva ricordato a Shamir il seguente testo delle Sacre Scritture: “Io non voglio la morte del peccatore ma che si converta e viva”. Avendogli poi chiesto se questa sentenza potesse applicarsi anche ad Arafat, Shamir aveva risposto con un secco no!
A Shamir Andreotti attribuiva il raro pregio di dire ciò che pensava senza ricorrere all'aiuto di perifrasi diplomatiche; nei suoi numerosi incontri con lui aveva tratto la sensazione che, anche se l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina avesse riconosciuto Israele senza pretendere da Tel Aviv la reciprocità e al posto di Arafat fosse stato eletto l'arcivescovo di Canterbury, Shamir non avrebbe comunque accettato, accampando, oltre che ragioni storiche, la tutela della sicurezza di Israele, di consegnare i palestinesi i territori occupati! Il perdono e la riconciliazione, che già Aristotele definitiva come "l'uso politico delle disgrazie ed una maniera civile per curare l'odio", sono presenti nel Vangelo; ma anche nel Corano come nell'Antico Testamento c'è il riferimento alla misericordia verso i nemici e alla rinuncia alla vendetta.
Il Medio Oriente -è stato detto- è un cimitero di opportunità perdute e di promettenti piani di pace. Arabi e israeliani non sono stati capaci da soli di uscire dall'impasse nella quale si sono o sono stati cacciati: un'intesa diretta, pur auspicabile e assolutamente necessaria tra le parti direttamente interessate, non si è rivelata finora sufficiente perché ci sono, da un lato, un'autorità seduta su un vulcano e, dall'altro, un governo, spesso di coalizione, in cui i partiti che ne fanno parte si neutralizzano a vicenda. In queste condizioni un accordo finale direttamente e liberamente accettato e attuato dalle parti è diventato pressoché impossibile.
Occorre una soluzione elaborata dalla comunità internazionale? Andreotti torna spesso sull'idea delle Nazioni Unite come futuro governo del mondo. A suo avviso l'Onu è forse il solo mezzo per impedire il caos nelle relazioni internazionali, sempre che si ammetta che non si può applaudire soltanto ad alcune decisioni e ad alcuni articoli del suo statuto dimenticandone altri.
Il richiamo al diritto che deve prevalere sulla forza costituisce una costante della politica di Giulio Andreotti e il ricorso alla cultura -cui fa riferimento Cicerone- come piattaforma di ogni attività lo rafforza nella convinzione che le soluzioni negoziali costituiscano il solo strumento utilizzabile per raggiungere obiettivi giusti, equi e destinati a durare nel tempo. Ciò perché le soluzioni militari sono sempre rischiose instaurando esse una spirale che, anche contro la volontà, degli uni e degli altri, può provocare conseguenze gravissime.
La capacità del "fare convivere" o semplicemente del "convivere" c'è almeno in parte anche nel Medio Oriente, come abbiamo visto; ma la convivenza va allargata e resa stabile, aumentando nei suoi confronti il consenso della gente. C'è, allora, la necessità di discutere e di dialogare con tutti, sviluppando, attraverso un immenso lavoro culturale, un'articolata visione del mondo.
Fin dall'inizio degli anni Cinquanta Giulio Andreotti, quale sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, aveva seguito con attenzione la tematica delle relazioni tra l'Occidente e in particolare l' Italia e il mondo arabo. La visita a Roma e in Vaticano nel gennaio del 1951 del segretario generale della Lega araba, Azzam Pascà, aveva in qualche modo dato la misura di quanto vivo fosse una parte non insignificante del mondo arabo l'interesse verso l'Italia: interesse che era il riflesso delle delusioni diffuse in molte capitali del Medio Oriente nei confronti degli Stati Uniti d'America e della Gran Bretagna, considerati gli uni e l'altra eccessivamente pencolanti verso le istanze di Israele e della Turchia.
Nell'incontro con il presidente Alcide De Gasperi era emerso lo scarso interesse che i Paesi arabi in generale nutrivano nei confronti del mondo comunista, anche se, talvolta, non tutti rimanevano insensibili alle manovre sotterranea di un abile propaganda di Mosca, sempre attenta sfruttare gli errori della politica angloamericana. L'Italia -secondo il segretario della Lega araba- si trovava in una posizione ideale perché aveva perso, a differenza dell'Inghilterra e della Francia, il suo impero coloniale e possedeva, quindi, le carte in regola per diventare bene accetta a popoli che combattevano per la loro indipendenza.
Particolare nient'affatto secondario di quell'incontro era stata l'insistenza con cui Azzam Pascià aveva posto l'accento sull'affinità dei valori spirituali fra musulmani e cristiani, i quali avrebbero potuto -sempre secondo l'illustre personalità egiziana- rendere un buon servizio alla causa della riconciliazione dei popoli, a condizione che l'Europa occidentale avesse compreso e riconosciuto i movimenti d'indipendenza sorti del mondo arabo e si fosse astenuta dal fare un gioco contrario ai suoi interessi lasciando che tali movimenti fossero appoggiati invece dall'Unione Sovietica.
La missione di Azzam Pascià si era conclusa con una visita in Vaticano, dove segretario aveva trovato orecchi attenti. Ma ciò che qui interessa sottolineare è che quella visita aveva suscitato, soprattutto in Arabia Saudita, parecchia indifferenza: non tanto perché in fondo l'idea di fronte comune cristiano-musulmano non fosse condivisa anche a Ryad, quanto piuttosto perché il re Abdallah considerava che quell'idea gli fosse stata scippata da re Faruk!
Comunque, come direbbe Samir Khalil Samir, di leader musulmani saggi e “illuminati” dall'antica cultura ellenistica non mancano esempi anche ai giorni nostri. Giulio Andreotti, dal canto suo, ricorda con commozione la domanda che gli aveva rivolto Hassan II, se, cioè, lui musulmano, avrebbe potuto portare la sua testimonianza nella causa di beatificazione di Giorgio La Pira; e cita volentieri l'entusiasmo dei giovani studenti romani de La Sapienza nell'ascoltare il seguente incipit del discorso del presidente Bouteflika in occasione del conferimento della laurea honoris causa: “Vengo dalla città di Sant'Agostino”.
Quando, poi, nel corso di una delle frequenti visite a Damasco, Hafiz al-Assad, gli parla con dovizia di particolari della vita e della figura di San Marone, il nostro ministro degli Esteri non riesce a nascondere la sua sorpresa, pari, almeno, a quella del suo interlocutore il quale si meraviglia che, lui, Andreotti, di quel santo conosca appena il nome!
Nel tentativo di cercare di “ricostruire” la natura delle relazioni tra Andreotti e il mondo arabo, il richiamo a questi episodi non ha carattere secondario perché serve a meglio comprendere l'intensità e l'originalità della relazione pazientemente instaurata e altrettanto pazientemente coltivata. Viene, semmai, spontaneo chiedersi quanti uomini di governo occidentali siano riusciti a creare, al pari di Andreotti, un ambiente e un clima di così intensa “intimità”.
Il richiamo ai valori comuni alle due civiltà, l'occidentale e la mediorientale, torna spesso nel sottofondo di quel pensiero cui Giulio Andreotti ispira il suo agire pratico: scriverà, nella prefazione agli scritti di un filosofo tedesco, Paul Ludwig Landsberg, che lui è ben consapevole della sua “inadeguatezza” a discettare di filosofia ma è pur vero che la linea che ha sempre seguito nell'affrontare la tematica mediorientale, dal conflitto arabo-israeliano ai rapporti dell'Italia con la Libia di Gheddafi e il Maghreb (avuto riguardo anche alle istanze della popolazione saharawi nei confronti del Marocco), è stata quella di ritenere che ciò che divide l'Occidente dall'Oriente è meno importante di ciò che li unisce!
Nascono da quest'impostazione di base tre conseguenze tra loro strettamente connesse: innanzitutto, il rifiuto innato di ogni forzatura (“il principio della faccia feroce -ripeterà spesso- è un principio che può dare qualche sensazione di vantaggio immediato ma non costruisce mai”), suscettibile di provocare un confronto sul piano militare e, quindi, l'irreparabile, come l'esperienza storica ci insegna; in secondo luogo, l'opportunità, anche di fronte a differenze che in un determinato momento appaiono “irriducibili”, di continuare a ricercare “vie d'uscita” (nell'immediato, non desistendo dal mantenere gli appropriati contatti e, in una prospettiva di medio-lungo periodo, nutrendo la speranza che il tempo “galantuomo” contribuisca a far maturare le condizioni per l'intesa); da ultimo, la necessità di non “aggrapparsi” al passato il quale potrebbe giocare anche il brutto scherzo di non farci intravedere le opportunità che un contesto in continuo divenire può riservarci. Insomma, è verso l'avvenire che bisogna sempre guardare.
Date tali premesse, comprendiamo meglio perché Giulio Andreotti, in questa filosofia della speranza politica, prestasse particolare attenzione a quanto, in una lettera datata 28 ottobre 1970, gli scriveva Giorgio La Pira: “Forse non erro dicendo che la DC potrebbe fare tanto (in Italia e, per riflesso, nel mondo) se avesse il coraggio di introdurre nella sua “concezione politica della storia” questo dato preciso: la guerra è impossibile; il negoziato globale è inevitabile; la mediazione italiana potrebbe davvero essere il grande ponte di pace gettato sul mondo!”.
Giulio Andreotti misurava bene quanto di “terzomondismo” vi fosse nel pensiero e nell'opera di Giorgio La Pira, anche se quest'ultimo nel 1949 si era espresso a favore dell'entrata dell'Italia nel Patto Atlantico; ma non poteva certo dimenticare l'insegnamento di Alcide De Gasperi a proposito della linea “neutralistica” che aveva avuto da noi un certo seguito nel dopoguerra, linea che lo statista trentino considerava assolutamente non perseguibile per la semplice ragione che “la neutralità esiste quando si è capaci di difendersi. Noi non siamo in grado di farlo: La neutralità chiede altre garanzie che noi non possiamo dare”.
Quando, in un colloquio avvenuto nel settembre del 1984 in margine ai lavori dell'Assemblea delle Nazioni Unite, Shamir disse ad Andreotti che, a giudizio di Gromyko, la Francia avrebbe dovuto essere ammessa a partecipare alla conferenza intergovernativa per la pace in Medio Oriente, il ministro degli Esteri italiano non se ne adontò, aggiungendo che la Francia aveva un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza ed era quindi ovvio – indipendentemente se fosse stato giusto in assoluto – che avesse una priorità in un disegno negoziale di così ampio respiro.
Nel dicembre del 1988 era stata sottoscritta a Stoccolma da un gruppo di ebrei americani e da Arafat una dichiarazione con la quale l'OLP riconosceva lo Stato di Israele. Si trattava della riconferma della decisione cui era pervenuto in novembre il Consiglio nazionale palestinese, che, oltre a ribadire il diritto dei palestinesi alla sovranità e all'indipendenza nazionale, aveva solennemente dichiarato la rinuncia al terrorismo in tutte le sue forme. A un giornalista che nella sede della nostra ambasciata a Washington gli chiedeva se non si sentisse un vincitore e se non fosse però rimasto un po' deluso dal fatto che a fare da mediatore tra gli ebrei americani ed Arafat fossero stati gli svedesi e non gli italiani, Giulio Andreotti rispondeva non soltanto che lui era “un poveraccio e che questi sono fatti che vanno al di là delle persone”, ma che l'Italia faceva parte della Comunità europea, che bisognava evitare di creare problemi con gli Stati membri e, pertanto, era preferibile che la Comunità si muovesse tutta assieme per avviare iniziative comuni.
Andreotti aveva certo ben presente il testo della Dichiarazione di Venezia sul Medio Oriente con cui il 13 giugno del 1980 il Consiglio europeo aveva affermato al punto 4 il diritto all'esistenza e alla sicurezza di tutti gli Stati della regione, compreso Israele, e la giustizia per tutti i popoli, e ciò che implicava il riconoscimento dei “diritti legittimi del popolo palestinese”. Egli era altrettanto consapevole di quanto, nelle circostanze del momento, fosse arduo, se non inutile, avventurarsi in sede comunitaria oltre il contenuto di quella Dichiarazione, introducendo il riconoscimento dell'Olp quale pienamente rappresentativa degli interessi del popolo palestinese.
Con il viaggio in Medio Oriente, compiuto assieme al ministro degli Affari esteri Arnaldo Forlani dal 15 al 19 novembre del 1978 e che lo avrebbe portato a visitare Tripoli, il Cairo, Amman e Bagdad, il presidente del Consiglio si poneva tre obiettivi: il primo riguardava il consolidamento dei rapporti bilaterali con l'Egitto, diventato dopo gli accordi di Camp David del 17 settembre, conclusi sotto l'auspicio del presidente Carter, il baricentro del mondo arabo. Il secondo era quello di incoraggiare la Giordania, troppo debole per portare avanti da sola un disegno di largo respiro, nel suo ruolo moderatore delle tensioni in loco e il terzo, invece, mirava ad aprire il dialogo politico con la Libia e con l'Irak.
Obiettivi impegnativi, dunque, sui quali prevaleva, in vista dell'accordo di pace con Israele che sarà concluso nel 1979, l'avallo del governo italiano all'azione del presidente Sadat: avallo che era stato assai più netto di quello espresso dagli altri paesi membri della Comunità europea.
La politica dell'Egitto e, in particolare quella del suo presidente, aveva trovato una netta opposizione sia presso Gheddafi sia presso Saddam Hussein e tiepidi, ma non contrari, i giordani, i quali, pur non condividendo gli accordi di Camp David, intendevano lasciare la porta aperta ad ogni realistica soluzione di pace.
Il commento di Giulio Andreotti circa il risultati del suo viaggio era stato in linea con la sua politica a un tempo senza molte illusioni su risultati a breve scadenza, ma sorretta dalla convinzione di aver potuto “partecipare ad una semina di speranze per il futuro sviluppo del negoziato di pace” pur tenendo presenti, come in ogni semina, “le incertezze del raccolto”.
All'apprezzamento del pubblico per l'iniziativa di pace di Sadat, quale “modo concreto di rompere il ghiaccio e di cominciare quel processo di negoziazione attraverso il quale si deve risolvere, non con la guerra, il problema del Medio Oriente” si aggiungeva, tuttavia, più sommessamente, la seria preoccupazione che il tentativo di sbloccare la crisi arabo-israeliana attraverso la cosiddetta “pace separata” non fosse immune da rischi, accentuati proprio dall'ottimismo coltivato dall'inquilino della Casa Bianca e determinati da una forse troppo parziale presa in considerazione da parte di quest'ultimo delle tante variabili dell' ”intrico” mediorientale.
Nel corso degli incontri con Gheddafi e con Saddam Hussein, Andreotti e Forlani, pure essendo il punto di vista italiano accolto con “pieno rispetto” e con “spirito di grande comprensione”, avevano misurato l'avversione dei libici e degli irakeni nei confronti di quello che questi ultimi chiamavano il tradimento egiziano.
Lo stesso Arafat doveva esprimersi, all'epoca dell'assassinio del presidente egiziano, in termini forti nei confronti di quella “mano che aveva firmato il perfido complotto di Camp David contro il popolo palestinese e la Nazione araba”. Cyrus Vance, alla cui shuttle diplomacy si dovette Camp David, scrisse nelle sue memorie che “contrariamente alle intese raggiunte non vi fu il previsto scambio di lettere tra Begin e Sadat riguardante la moratoria degli insediamenti a Gaza e nella Cisgiordania”.
Nel mondo arabo, poi, era maturata la convinzione che la restituzione del Sinai era stata resa praticabile soltanto perché la tacita benedizione di Sadat aveva fatto sì che le truppe israeliane potessero continuare a stazionare nei territori occupati.
Perché Andreotti considerava giusti gli accordi di Camp David che tanto filo da torcere avevano procurato all'Egitto a causa del rifiuto della quasi totalità degli Stati arabi ad accettarli? Perché li difendeva a spada tratta nel corso del periplo che lo portò - su suggerimento, oltre che di Sadat, dello stesso Carter – a visitare Tripoli, Amman e Bagdad?
Egli aveva ben presente il testo inequivoco della lettera con cui Carter gli comunicava nei seguenti termini il contenuto degli accordi:
riconoscono i legittimi diritti del popolo palestinese e gli permetteranno di partecipare alla determinazione del suo stesso futuro (….). I palestinesi decideranno essi stessi come si governeranno ed i loro rappresentanti prenderanno direttamente parte ai negoziati concernenti il loro futuro (…). Entro cinque anni gli abitanti della Cisgiordania e di Gaza istituiranno un'autorità dotata di piena autonomia per sostituire l'amministrazione militare israeliana (….). Non ci saranno nel frattempo nuovi insediamenti israeliani nei due territori (…).
Quale conclusione, dunque, trarre se non quella che l'iniziativa di Sadat non configurava una pace separata, non mirava a indebolire la causa palestinese, dato che la soluzione dei problemi del Vicino Oriente non poteva che essere globale e che, senza tale soluzione globale, non si sarebbe mai potuto conseguire la pace? Insomma, di fronte agli intoppi incontrati a ogni piè sospinto, soltanto la tenacia nel proseguire i negoziati – e non la protervia nel compiere atti terroristici o di rappresaglia – appariva alla lunga costruttiva.
Creare le condizioni di un dialogo diretto, dicevo: la visita di Arafat a Roma dal 15 al 16 settembre 1982 per partecipare ai lavori della sessantanovesima Conferenza dell'Unione interparlamentare si collocava nella prospettiva positiva rappresentata dalla presentazione, l'anno prima della proposta del principe ereditario dell'Arabia Saudita, Fahd, contemplante il riconoscimento del diritto alla sicurezza per Israele, il ritiro delle truppe israeliane nei territori occupati nel 1967 e la costituzione di uno Stato palestinese con Gerusalemme est come capitale.
Questa proposta, sottoposta qualche giorno prima dell'arrivo di Arafat in Italia al Consiglio nazionale palestinese riunito a Fez, aveva ricevuto l'approvazione del presidente dell' Olp; approvazione che quest'ultimo ebbe modo di confermare, in occasione dei lavori della Conferenza dell'Unione interparlamentare, di fronte a una platea composta da parlamentari provenienti da ogni parte del mondo.
Nel dare l'avvio ai lavori nella sua qualità di presidente del Gruppo italiano dell'Unione interparlamentare, oltre che di presidente della Commissione Esteri della Camera, Giulio Andreotti, che, qualche tempo prima, aveva scritto ad Arafat perché fosse lui stesso a rappresentare l' Olp ai lavori della Conferenza di Roma, aveva ricordato che il ruolo cui l'Unione parlamentare era chiamata ad adempiere consisteva nell'operare “silenziosamente per avvicinare posizioni, suscitare reciproca comunicativa e creare le premesse perché i grandi problemi trovino, nelle sedi proprie, meno difficile soluzione”. E aggiungeva, altresì, che occorreva “cercare di corrispondere alle aspettative di pace, di giustizia e di progresso comuni agli uomini di buona volontà al di sopra di tante, pure legittime, distinzioni”.
Il documento sul Medio Oriente, adottato dalla Conferenza a grandissima maggioranza, chiedeva a Israele di ritirarsi immediatamente da tutti i territorio occupati del 1967, di abbandonare gli insediamenti e astenersi dal costruirne di nuovi, di facilitare il ritorno dei palestinesi esiliati o espulsi e a mettere fine ad ogni atto d'aggressione diretto contro chi resistesse all'occupazione israeliana.
Questo documento toccava un punto particolarmente sensibile. Quello in cui, nel quinto paragrafo, si manifestava apprezzamento per la linea costruttiva fissata dal vertice di Fez nel senso, cioè, di una soluzione politica e non militare del conflitto in corso. L'adesione a questo testo da parte di Arafat comportava l'implicito riconoscimento del diritto di Israele all'esistenza e fu quindi considerata da Giulio Andreotti come un primo passo nella corretta direzione. Pertanto, la visita a Roma e in Vaticano del presidente dell'Olp, che molte polemiche aveva suscitato anche in seno al governo presieduto da Giovanni Spadolini, fu considerata dal suo promotore “una svolta a U nella storia dell'Organizzazione”. Con la sua consueta e sottile punta di humour Giulio Andreotti scriveva che il problema del Medio Oriente non poteva certo essere risolto “tenendo l'Olp nel ghetto”, al quale la partecipazione del presidente di quest'ultima ai lavori della Conferenza interparlamentare lo aveva finalmente strappato!
A osservatori poco attenti può forse sfuggire l'importanza del “valore aggiunto” di una politica che, scientemente e se non ve n'è bisogno, si tiene lontana dalle manifestazioni plateali e che preferisce, invece, dati la complessità dei temi da trattare e il solco d'incomprensioni profonde che dividono gli attori, ricorrere allo strumento della persuasione. Significativa, al riguardo, è la risposta che Giulio Andreotti aveva dato a un giornalista che gli chiedeva come mai non adottasse, data l'elevata considerazione di cui godeva presso i sui interlocutori arabi, un profilo palesemente più elevato: “Io posso cercare di dissipare i malintesi ma non certo di fare da mediatore tra le differenti valutazioni arabe”.
L'obiettivo che Andreotti si era proposto nel periodo che va dagli anni Settanta fino agli accordi di Oslo era consistito, dunque, nel dissipare, di fronte al conflitto tra il mondo arabo e Israele, la diffidenza delle parti in causa, che portava, da un lato, a non accettare il diritto all'esistenza di Israele, il quale si continuava a volere chiamare entità sionista da cui la Palestina doveva assolutamente liberarsi e, dall'altro, a “non riconoscere la rappresentatività unica dei palestinesi con il rischio, tra l'altro, di non avere più un interlocutore valido”. Premessa di ogni negoziato era, dunque, il reciproco riconoscimento delle parti senza il quale il semplice dialogare diventava impossibile.
In un'intervista del dicembre del 1982, il presidente della Commissione Esteri della Camera dei deputati esprimeva nei seguenti termini la sua valutazione della situazione in Medio oriente, che, pur risentendo delle vicende del momento, rifletteva una convinzione radicata rientrante in una strategia di ben più largo respiro: 1) sfruttare ogni occasione per l'affermazione della pace, da ottenersi con il reciproco simultaneo riconoscimento dei diritti e dei doveri sia di Israele sia del popolo palestinese; 2) collocare entro questa cornice, l'iniziativa di Sadat e l'invito ad Arafat a partecipare ai lavori della Conferenza interparlamentare di Roma; 3) compiere opera di persuasione perché i palestinesi si convincano che ci può essere una politica alternativa a quella delle armi, anche se, quando è in atto una guerra di liberazione, il confine tra terrorismo e patriottismo diventa di difficile individuazione; 4) prendere atto che la via di Fez, ripresa dal Piano Reagan e ribadita a Roma da Arafat (cosa che sarebbe impensabile in altri momenti per il presidente dell'Olp) comporta implicitamente il riconoscimento di Israele con la contemporanea garanzia di una patria per i palestinesi.
Nei confronti di Israele la linea da seguire consiste, secondo Andreotti, nell'aiutare le autorità locali a superare quel complesso dell'accerchiamento che le spinge a rispondere con la violenza alla violenza e a compiere azioni di aperta violazione del diritto internazionale: considerazione, questa, ripetuta in Senato il 5 febbraio del 1986 a proposito dell'attacco israeliano contro un aereo civile libico e che parte della stampa italiana riprende, interpretandola erroneamente come un tentativo di “minimizzazione” dell'accaduto da parte del ministro degli Esteri.
Ho parlato poc'anzi d'intrico mediorientale. Secondo il vocabolario della nostra lingua, intrico è sinonimo d'impiccio e allude piuttosto a difficoltà nate dalle cose stesse che a imbrogli creati intenzionalmente da persone. Il caso del Libano è, a questo riguardo, emblematico e, in un'intervista rilasciata a “La Discussione” nel marzo del 1988, sua beatitudine Nasrallah Pierre Sfeir osservava che la causa principale della guerra civile libanese scoppiata nell'aprile del 1979 consisteva nel fatto che il Paese dei cedri aveva accolto sul suo territorio un numero di profughi palestinesi superiore alle sue capacità di accoglienza, sconvolgendo così il delicato equilibrio demografico su cui si era formato l'assetto socio-politico di quella Repubblica.
L'analisi del patriarca di Antiochia dei maroniti, alle cui valutazioni Giulio Andreotti prestava particolare attenzione, era certamente corretta nella misura in cui in Libano si era venuto a creare, a partire dal 1948, un nuovo stato di cose dovuto alla contiguità territoriale con la Siria e con Israele; ma se, da un lato, la permeabilità della società libanese favoriva l'interazione con le dimensioni regionali e internazionali del conflitto arabo-israeliano, dall'altro, l'operazione del mantenimento della pace, cui era stato dato avvio nel settembre del 1982 , risentiva dei limiti derivanti da un intervento unilaterale, senza l'egida delle Nazioni Unite. Si aggiunga che la scarsa lungimiranza della diplomazia americana, poco informata sulla realtà libanese, non aveva contribuito ad avvicinare il tanto agognato traguardo della riconciliazione nazionale.
La restituzione del Libano ai libanesi con il ritiro graduale di tutte le truppe straniere e l'accettazione di regole comuni di vita da parte dei rifugiati, ai quali dovevano essere fornite garanzie di sicurezza essendo assurdo pensare di avanzare nei loro confronti pretese di esodo, avevano costituito due capisaldi dell'intervento del presidente della Commissione esteri della Camera dei deputati nella riunione congiunta delle Commissioni esteri e difesa nel luglio1982. In quella occasione, egli aveva insistito sulla opportunità che che la forza internazionale incaricata di aiutare il Libano a tornare alla normalità, non provenisse “da iniziative o da accordi diversi”, ma facesse capo alle Nazioni Unite.
E' interessante notare che Giulio Andreotti, tenendo presenti gli attentati che avevano duramente colpito i marines americani e i paracadutisti francesi inquadrati nella Forza multinazionale di pace, si era dichiarato contrario a rafforzare o a estendere le funzioni della Forza stessa e aveva precisato che, per quanto riguardava il contingente italiano, non ci sarebbe stato alcun aumento né di consistenza numerica, né di destinazione oltre la linea assegnata. Egli aggiungeva che lo scopo della presenza italiana nel Libano era quella di “fare restare nel Libano solo i libanesi” e di fare in modo che dal Libano se ne andassero “tutti gli stranieri, noi compresi, anche se -concludeva- noi siamo andati là per garantire la pace e su invito del governo del Libano”.
La preoccupazione dominante di giulio Andreotti era tuttavia quella di garantire in ogni caso il carattere imparziale della Forza multinazionale di pace e, quindi, di dare a quest'ultima la possibilità di operare su un terreno infido in condizioni di maggiore sicurezza; né lo aveva convinto l'obiezione, avanzata da alcune capitali occidentali, di un veto sovietico perché -argomentava sempre Andreotti- Mosca avrebbe dovuto comunque “preferire la presenza ad una forza in qualche modo di parte, di una forza più garantista e non suscitatrice di possibili reazioni estensive”.
Il ministro degli Esteri aveva terminato quel suo intervento alla Camera con le seguenti parole; “Vi sono momenti nei quali i valori fondamentali della vita devono fare premio su ogni calcolo e su ogni compromesso. Io credo che l'Italia, direttamente e nella sua collocazione comunitaria e internazionale, debba e possa dare in proposito un determinante contributo”.
E' stato detto che la Palestina, quel tratto di territorio compreso tra il Libano e il Sinai, da un lato e tra il Mediterraneo e il Giordano, dall'altro, non più vasto della Lombardia, è un luogo che ha prodotto più storia di quanto fosse possibile consumare il loco. Nei suoi termini essenziali, però, la questione che da più di sessanta anni occupa la scena internazionale può essere ricondotta ai seguenti termini: da un lato, la richiesta degli ebrei di tornare in quella che era stata la loro patria, dall'altro, la richiesta dei palestinesi di rimanere in quella che da tempi immemorabili era la loro terra. Trattandosi dello stesso spazio, si può affermare che il conflitto tra israeliani e palestinesi deriva dall'ambizione di due popoli a costruire il loro Stato sul medesimo territorio.
Data questa premessa, si comprende come Giulio Andreotti -avendo presente il quadro più generale rappresentato dalla presenza, oltre che degli Stati della regione, anche di altri soggetti internazionali quali, in primis, gli Stati Uniti d'America e, poi, l'Unione Sovietica e la Comunità Europea- si proponga come obiettivo prioritario della sua azione politica la realizzazione delle condizioni atte a far sì che i principali diretti protagonisti di quella tormentata vicenda comincino a parlare tra loro. Di qui la necessità che, andando oltre il dettato della Dichiarazione di Venezia, l'Olp presieduta da Yasser Arafat sia riconosciuta anche da Israele come legittimo rappresentante del popolo palestinese e che l'Olp, a sua volta, riconosca il diritto di Israele a esistere. Il diretto coinvolgimento di Arafat nel negoziato di pace avrebbe permesso, altresì, di superare la dicotomia, tornata alla luce dopo il 1979, tra coloro che avrebbero voluto una “pace collettiva” e coloro, invece, che, come ho detto poc'anzi, avevano imboccato con Camp David il percorso audace, ma irto di spine della “pace separata”. Al coraggio di Sadat, che pagherà con la vita l'iniziativa con Israele, Andreotti non mancherà in più occasioni di rendere omaggio e, nello stesso tempo, metterà l'accento sul prezzo sopportato da Israele con l'assassinio di Rabin conseguente agli accordi di Oslo.
Come già aveva detto nel luglio del 1974 al presidente Carter il quale sollecitava l'Italia a fare pressioni sull'Olp perché ritirasse la pregiudiziale contro il diritto all'esistenza di Israele, Andreotti osservava anzitutto che, se si fosse riusciti nell'intento di mettere attorno allo stesso tavolo israeliani e palestinesi, il riconoscimento reciproco sarebbe de facto intervenuto. Ma, aggiungeva subito dopo, il nocciolo del problema consisteva nell'indurre Israele a manifestare una qualche disponibilità a restituire i territori occupati. E' un concetto, questo, che ritorna spesso nel ragionamento di Andreotti: come, ad esempio, Sadat avrebbe potuto firmare un trattato di pace con Begin se Israele non avesse consentito a restituire all'Egitto il Sinai? Era inutile, dunque, pensare di ottenere l'accordo dell'Olp per il riconoscimento di Israele se Israele, dal canto suo, si ostinava a non volere fare concessione concrete all'Organizzazione palestinese.
Il riconoscimento al “modo” di fare politica nell'Andreotti-pensiero non è certo secondario, se l'oggetto di questa politica è il Medio Oriente. La conoscenza delle negative esperienze del passato, contrassegnato da sospetti, diffidenze, riserve mentali, doppi giochi, etc. lo porta, quasi naturalmente, a diffidare dei grandi progetti destinati, proprio perché ad essi non seguono solitamente fatti concreti, a rimanere impietosamente sulla carta; né Andreotti nutre l'ambizione o la velleità di ricondurre la sua azione a un contesto ideologico di orgoglio nazionale o suo e, tanto meno, di rivendicare per il nostro Paese il ruolo geopolitico di “mediatore” o di “costruttore di ponti”. Così, il pur generoso tentativo effettuato dal presidente del Consiglio Bettino Craxi in occasione del Consiglio europeo di Dublino del 3-4 dicembre del 1985 (preceduto da una serie di visite in Medio Oriente cui aveva partecipato il ministro degli Esteri) per indurre gli altri partner comunitari a impegnarsi sulla cosiddetta “opzione giordana” rimane in gran parte frustrato a causa delle incertezze statunitensi e dell'intransigenza di cui aveva dato prova Tel Aviv.
La ricerca, per quanto lenta e sofferta, di un percorso comune passa attraverso la reciproca accettazione delle rispettive differenze e specificità; ma, per essere veramente produttiva, tale ricerca non può non servirsi del dialogo quale strumento privilegiato. Giulio Andreotti sa bene che gli americani, almeno fino agli inizi degli anni Ottanta, sono andati incontro a tutta una serie di fallimenti, dei quali ultimo in ordine di tempo è stato il Piano Reagan e, in seguito, hanno scelto la via di favorire l'incontro diretto fra le parti. Ma, se vuole attrezzare i popoli a vivere tra loro, occorre altresì sapere superare la visione manichea che porta a distinguere sulla base di parametri prefabbricati e di dubbia imparzialità, i buoni dai cattivi e a individuare nel prossimo un potenziale nemico. A quest'ultimo riguardo, Andreotti non mancherà di stigmatizzare le posizioni di coloro che hanno optato, in un determinato momento storico, per la “demonizzazione” di Gheddafi e si pronuncerà sempre, come quando condanna in maniera decisa l'invasione del Kuwait da parte dell'Irak, per una soluzione negoziata nel pieno rispetto delle risoluzioni delle Nazioni Unite. L'esperienza maturata fin dall'epoca della Costituente, che troverà concreta attuazione nel ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali, lo porterà a sottolineare come “l'embargo totale imposto all'Iraq dalla comunità internazionale sotto la bandiera dell'Onu e con l'adesione di Urss e Cina resta la sola alternativa al conflitto e, quindi, l'obiettivo che la Comunità deve perseguire”.
L'idea che gli americani abbiano come missione di esportare la democrazia in tutto il mondo era maturata a Washington anche prima che George W. Bush la teorizzasse proclamando, dopo gli attentati dell'11 settembre del 2001, la war on terror. All'epoca della Guerra fredda, già Truman, inaugurando la politica di containment contro l'espansionismo sovietico, aveva sottolineato come l'obiettivo degli Stati Uniti fosse quello di aiutare i popoli liberi nella loro opposizione ai “tentativi di asservimento da parte di minoranze armate o di pressioni esterne”; e il primo nucleo di neocon, sorto a New York negli anni Trenta del secolo scorso, sognava l'estensione a tutti i continenti della dottrina di Monroe.
Giulio Andreotti mostra disinteresse verso il dilemma, scaturito dalla diatriba intorno all'ineluttabilità dello “scontro delle civiltà”, tra “modernizzare l'Islam” e “islamizzare la modernità”; egli non accetta, però, di targare l'Islam come intrinsecamente contrario alla democrazia e, quindi, una minaccia all'identità dell'Occidente, come se i musulmani fossero i “grandi malati” dell'umanità e, pertanto, avessero bisogno di assumere dosi da cavallo di “modernità”.
Le più recenti vicende dell'Irak gli danno ragione perché dimostrano ad abundantiam come la democrazia non possa essere imposta dell'esterno, dato che essa è il risultato di una condivisione determinata essenzialmente da fattori interni. Che cosa significa “modernizzare” il mondo arabo se non mettere a disposizione di quest'ultimo quegli strumenti scientifici e tecnologici che gli permetterebbero di affrontare e vincere le sfide del presente e del futuro, in primis quella della globalizzazione?
In occasione della visita a Roma nel maggio del 2004 del presidente del parlamento egiziano, Giulio Andreotti, apprezza l'impostazione innanzitutto culturale data dall'ospite alle relazioni tra il mondo arabo e l'Europa, in particolare con l'Italia e si compiace della conclusione dei numerosi partnership agreements con università italiane operanti, oltre che in Egitto, in Siria e in Libano.
Giulio Andreotti sa bene che l'Europa sembra spesso tollerante nei confronti di comportamenti tenuti nel Vicino Oriente: in altre parole, finge di ignorare o sottace violazioni o violenze nel conflitto tra Palestina e Israele, mentre potrebbe fornire – ma non imporre – un modello di società basato sulla giustizia, sulla legalità e sul rispetto dei diritti umani.
Nello stesso ordine di idee, il partenariato euromediterraneo previsto dal processo di Barcellona esprime certamente un'ispirazione forte, ma non nasconde una certa qual dose di ambiguità: i partner, infatti, presentano caratteristiche troppo differenti tra loro e i Paesi arabi non sono in grado di onorare gli impegni e di assumere le responsabilità inerenti al partenariato nella stessa misura in cui possono farlo gli stati membri dell'Unione.
A un certo modo di fare politica va ricondotto altresì lo scrupolo con il quale Giulio Andreotti soppesa comportamenti e situazioni: non si erge a giudice degli uni e delle altre, cerca, piuttosto, di afferrare, anzitutto, il senso profondo delle cose del momento, evitando che egli stesso e i suoi interlocutori si facciano troppo condizionare da quei fardelli del passato che finiscono, poi, per ostacolare la percorribilità delle soluzioni politiche. In questo quadro, si tratta di superare qualunque velleità di discriminazione, di evitare di fare emergere quel sottofondo di ostilità e di diffidenza presente nella manifestazione delle differenze e di porre e di esporre i problemi in maniera prevenuta. Prevale, dunque, in lui – soprattutto in quel rapporto con gli arabi che gli risulta difficile considerare come “un rapporto fra diverse diplomazie “- il punto di vista secondo cui mettersi nei panni dell'altro per sapere che cosa pensa e come reagisce costituisce un fattore importante in un mondo in cui la competizione è estrema e la ricerca di un indirizzo di comunione piuttosto ardua.
Partendo dalla premessa che il nocciolo della discordia fra palestinesi e israeliani è quello della “competizione sul medesimo territorio”, Giulio Andreotti matura, molto di più di tanti suoi colleghi, la convinzione che il conflitto del Medio Oriente sia ricomponibile soltanto in un quadro che veda impegnati in primis tutti gli Stati della Regione. Capovolgendo i termini del problema, così come essi sono stati posti da molti governi, l'unità del mondo arabo non è da lui percepita come un ostacolo per una pace giusta e durevole; ma è pure vero che la precipitazione con cui in determinati momenti storici si levano voci a favore di piani di ampio respiro suggerisce ad Andreotti prese di posizione, anche pubbliche, improntate alla massima cautela. Di qui la necessità di operare, sfruttando anche i margini lasciati liberi da altri e, in particolare, dagli Stati uniti, per fare sì che paesi “riluttanti” o addirittura contrari, come la Libia e la Siria, assumano nei confronti di eventuali trattative di pace posizioni meno intransigenti.
Il compito è arduo soprattutto perché bisogna convincere gli interlocutori , siano essi americani o europei, che la violenza da qualunque parte provenga non va necessariamente a braccetto con il terrorismo, essendo, talvolta, il riflesso di un'esigenza di sicurezza e, talaltra, legata all'esercizio del diritto dell'autodeterminazione dei popoli.
L'azione svolta dal ministro degli esteri italiano a partire dall'autunno del 1983 di utilizzare quello che c'era di buono nel Piano Reagan del settembre del 1982 (che prevedeva, fra l'altro, oltre al congelamento degli insediamenti dei coloni nei territori occupati, l'autonomia e il governo della Cisgiordania e di Gaza da parte dei palestinesi “in associazione con la Giordania”) per cercare di “coinvolgere” non soltanto Arafat ma anche Assad si colloca in questo preciso disegno supportato da suggerimenti e da tentativi di convincere e persuadere.
In un'intervista rilasciata nell'aprile del 1985 al quotidiano libanese “As Safir”, centrata sugli sforzi dell'amministrazione Reagan per favorire un dialogo diretto tra Israele e il mondo arabo attraverso la costituzione di una delegazione congiunta giordano-palestinese, Andreotti sottolinea che i tentativi per arrivare a questo dialogo rischierebbero di essere resi vani qualora non s' intenda coinvolgere in essi anche Assad perché sarebbe, egli dice “un'illusione pensare che senza la Siria o contro la Siria si possa arrivare alla pace”. Parole, queste, che riflettono anche il timore di Assad di vedere la Siria emarginata dal progetto di pace, qualora l'idea, appena ventilata dal primo ministro Shimon Peres, di cedere una parte dei territori occupati da Israele al Regno hashemita dovesse far cadere la Giordania nell'orbita israeliana.
Lungo la stessa linea di pensiero, che consiste nel non forzare le cose quando mancano le condizioni, si colloca la riluttanza di Andreotti a prendere, seguendo soltanto l'onda dell'incalzare frenetico degli avvenimenti, iniziative a livello sia nazionale sia europeo. La sua condotta muove dalla constatazione che i dieci Stati membri della Comunità europea hanno raggiunto un accordo chiaro con la Dichiarazione di Venezia del giugno del 1980 e che, comunque, una conferenza sul Medio Oriente dovrebbe coinvolgere anche l'Unione Sovietica ma che “per fare una conferenza occorre che la situazione maturi”.
Alla diciassettesima sessione del Consiglio nazionale palestinese, tenutosi ad Amman alla fine di novembre del 1984, re Hussein aveva illustrato le grandi linee della iniziativa comune giordano-palestinese di conferenza per la pace, cui avrebbero dovuto partecipare le cinque Nazioni membri permanenti del Consiglio di sicurezza assieme tutte le parti, compresa l'Olp, impegnate nel conflitto tra arabi e israeliani. L'appoggio dato da Arafat, nonostante l'opposizione d'importanti frange dell'Olp -in particolare quelle legate alla Siria-, aveva certamente assunto il significato di un'importante vittoria politica in seno al Cnp, ma si doveva rivelare nell'immediato non produttivo a causa non soltanto dei dissensi tra le file arabe, ma anche dell'opposizione manifestatasi in Israele in seno al governo di coalizione presieduto da Peres.
Dagli incontri con Mubarak, con Fahad, con Chadli Benjedid e con Bourghiba era emersa chiara a Giulio Andreotti la preoccupazione per il ristagno del processo negoziale, per la frustrazione delle popolazioni arabe e per la diffusione del radicalismo politico e religioso in tutto il Medio Oriente. La necessità di una sollecita ripresa del negoziato arabo-israeliano e di un'iniziatica degli Stati Uniti veniva ribadita con accenti accorati sia al Cairo sia a Ryad; mentre era causa di grave imbarazzo la resistenza dei Paesi del cosiddetto “Fronte del Rifiuto”, diventato in seguito “Fronte della Fermezza”.
A Tunisi, Arafat si era dichiarato soddisfatto dell'intesa raggiunta con il re di Giordania per fornire un nuovo quadro negoziale, caratterizzato dalla costituzione di una delegazione giordano-palestinese incaricata di avviare trattative con il governo di Israele.
Rispetto all'intesa tra il re Hussein e Arafat per una delegazione congiunta giordano-palestinese Andreotti aveva mostrato subito molta cautela: non che l'intesa in sé non potesse fare compiere “qualche passo in avanti”, ma aggiungeva subito che, se di passi in avanti si fosse dovuto parlare, si trattava pur sempre di “passi piccolissimi”.
Per la verità, l'incontro con Shimon Peres del febbraio 1985 gli aveva fornito la misura delle difficoltà ancora da superare nonostante l'impegno americano e quello, in particolare, dell'inviato speciale Richard Murphy.
A fronte di segnali di disponibilità di Peres verso le proposte di pace di re Hussein, l'opposizione nella maggioranza e nel governo (l'una e l'altra formate da laburisti e da esponenti del Likud) a una trattativa con la delegazione giordano-palestinese era rafforzata dalla contrarietà del ministro della Difesa Yitzhak Rabin. Ci sono “differenze nel governo di unità nazionale -sosteneva Peres- ma -aggiungeva un po' ingenuamente- siamo pronti a valutare ogni proposta messa sul tavolo dalla delegazione giordano-palestinese e valutarla seriamente, apertamente e sinceramente per trovare una strada e porre fine alle ostilità”.
La dichiarata disponibilità del capo del governo israeliano urtava, come ho detto, contro difficoltà pressoché insuperabili. Gli Stati Uniti venivano accusati dal Likud di non comportarsi più da alleati di Israele e la proposta di Hussein, si diceva, avrebbe portato al riconoscimento dell'Olp. Di qui tre netti no: no all'Olp che è un covo di terroristi, no alla conferenza di pace internazionale cui avrebbe per giunta partecipato l'Unione Sovietica e no, infine, alla ventilata fornitura di materiale bellico degli Stati uniti ad Amman e a Ryad.
Profetiche, in quei delicati frangenti, le parole di Andreotti: “Non penso che il tempo possa automaticamente risolvere il problema del Medio Oriente, ma non sarebbero comunque utili mosse sbagliate o impreparate. Tanto più che quel che conta è creare attorno al negoziato un clima di consenso o almeno di non contrasto, generale o quasi generale”. Torna in questa valutazione il duplice convincimento che una pace giusta e stabile in Medio Oriente non possa essere raggiunta senza coinvolgere tutti gli attori, in primis Assad, e che la tenuta di una conferenza internazionale sotto l'egida delle Nazioni Unite senza che si siano realizzate le condizioni minime per tenerla possa trasformarsi in una vera e propria catastrofe.
Il costo della pace tra Israele e il mondo arabo viene ritenuto troppo elevato ora dall'una ora dall'altra delle parti in causa, con la conseguenza -aggiunge Andreotti- che in questo “tira e molla” a farne le spese sia il negoziato e a fare da vincitore sia la violenza. L'esperinza storica, infatti, sembra avvalorare la tesi secondo la quale in quella parte del mondo sia venuto a mancare quasi sempre un sincronismo tutte le volte che, per iniziativa o degli israeliani o degli arabi, sono apparsi spiragli, per quanto modesti, verso una composizione pacifica.
Negli anni Quaranta, la disponibilità degli ebrei di Palestina urta contro il rifiuto degli arabi ad accettare la nascita dello Stato di Israele; dopo il 1948, sono gli israeliani a rifiutare la mano tesa che i siriani, su iniziativa del loro presidente, Husni Za'im, sono pronti a tendere. Dopo la guerra del 1967, le aperture di Israele urtano contro la indisponibilità a negoziare degli arabi guidati da Nasser e, quando Saddat succede a Nasser, sono di nuovo gli israeliani a respingere, alla vigilia della guerra del 1973, le profferte di pace egiziane.
Giulio Andreotti conosce bene la storia del Vicino Oriente ed è per questa ragione che non intende affatto farsi da essa irretire o suggestionare. Il passato, dunque, non può costituire da solo un “indicatore di marcia” e la memoria, sempre utile se serve a evitare il ripetersi d'errori, può soltanto in parte aiutare a costruire il presente e a progettare il futuro. Il sospetto e, più ingenerale, la circospezione con i quali Andreotti -lo abbiamo detto- guarda a progetti di piani o di conferenze indicano che per lui l'obiettivo della pace giusta e durevole va perseguito non già attraverso formule più o meno elaborate, bensì cercando, anzitutto, di “lavorare” sui possibili margini dell'intermediazione. Anche ad Arafat, che gli parla in termini ottimistici della conferenza intergovernativa sotto l'egida delle Nazioni Unite, ripete che le conferenze si fanno soltanto se c'è la ragionevole speranza di fare dei progressi, altrimenti -aggiunge- si rischia di trovarsi con un pugno di mosche in mano!
Giulio Andreotti sa che molti in Israele la pensano come Golda Meir e, cioè, che i palestinesi come popolo non soltanto non hanno il diritto di esistere, ma semplicemente non esistono e sa che il fronte del rifiuto, dell'alleanza contro Israele, nasce dal sentimento di una minaccia comune. Sa, soprattutto, che non si può pretendere che i palestinesi, protagonisti di una guerra di liberazione, smantellino la loro organizzazione militare senza offrire loro in cambio un'identità accettata e rispettata in primis da tutti i Paesi vicini.
La possibilità di interloquire con una controparte, soprattutto se questa controparte è araba, presuppone una conoscenza approfondita dell'ambiente in cui vive, delle sue abitudini, delle sue convinzioni e, naturalmente, degli obiettivi che si propone, Non può, quindi, destare meraviglia che Giulio Andreotti, giunto a Tripoli per vedere il colonnello Gheddafi, si apparti, prima dell'incontro, in una sala della nostra ambasciata per rileggere e sottolineare con una matita alcuni passaggi del Libro Verde in cui sono condensati il pensiero politico del fondatore della Grande Jamahiriya.
Per ore a Tripoli nella caserma di Bab al'Aziziyyah e a Bengasi sotto una tenda egli ascolta le idee del colonnello Gheddafi sul modello socio-politico introdotto in Libia, profondamente diverso sia dal capitalismo sia dal marxismo-leninismo. Come alternativa ai sistemi parlamentari, che “costituiscono una falsa soluzione del problema della democrazia “ e ai partiti, che inaspriscono la lotta per il potere, il leader libico identifica nella “democrazia diretta” il suo metodo di governo che egli realizza attraverso la costituzione di congressi e di comitati popolari.
“Mettersi nei panni” del proprio interlocutore serve, evidentemente, a meglio comprendere (e a giustificare, eventualmente) il suo punto di vista; ma anche, sintonizzandosi sulla sua stessa “lunghezza d'onda” essere in grado di meglio confutare le sue prese di posizione per cercare di correggerle o, quanto meno, di “seminare il dubbio”. Così, quando nell'estate del 1984, prima di recarsi alle Olimpiadi di Los Angeles dove incontrerà il presidente Reagan, volerà a Tripoli e avrà un lungo colloquio con Gheddafi, Andreotti ricorderà alla sua controparte che, se è vero -come scrive il Libro Verde- che non si può essere veramente liberi se non si diventa proprietari almeno della tenda in cui si vive, il mondo di oggi porta sempre di più a rendere il prossimo partecipe, in comunione d'intenti, delle proprie soddisfazioni e delle proprie pene.
Il risultato di quella visita è abbastanza sorprendente perché Gheddafi, desideroso, fra l'altro, di aprire un riservato canale di dialogo con gli americani, incarica il ministro degli Esteri italiano di fungere – come lo stesso Andreotti amava definirsi in quella particolare circostanza – da semplice “fattorino postale” nel rimettere al presidente degli Stati Uniti due edizioni del Libro Verde tradotto in inglese con dedica del leader!
La lungimiranza di Giulio Andreotti è stata troppo spesso confusa con una “peculiare inclinazione al pragmatismo” fine a se stesso. In realtà, questa sua capacità di “saper vedere lontano” si è tradotta, nella condotta politica, nel dare delle vicende della storia una interpretazione suscettibile, da un lato, di superare contingenze spesso fuorvianti, e, dall'altro, di tradursi, a distanza di tempo più o meno lunga, in fatti concreti. Non deve stupire, dunque, il fatto che, gà nei primissimi anni Settanta, egli abbia colto appieno la valenza politica dell'iniziativa presa da un alto esponente del Banco di Roma, l'avvocato Mario Barone, di dare vita, con l'appoggio del governatore della Banca d'Italia, Guido Carli, alla costituzione di un gruppo bancario con lo scopo di fornire ai Paesi del mondo arabo una vastissima gamma di servizi di assistenza finanziaria. Ancor più significativa appare la circostanza che, all'atto della costituzione dell'unione di banche arabe ed europee avvenuta nel novembre del 1972 a Roma, all'epoca, dunque, del primo governo Andreotti e a tre anni dall'ascesa al potere in Libia di Gheddafi, la più importante partecipazione azionaria sia stata assunta dalla Lybian arab foreign bank e che il presidente di quest'ultima, Abdhalla Saudi, sia stato chiamato, assieme all'avvocato Barone quale vicepresidente, a rivestirne la massima carica.
La ricerca di “spunti di convergenza in questo mondo così pazzamente agitato” costituisce l'obiettivo perseguito da Giulio Andreotti nei suoi diversi incontri con il colonnello libico, a cominciare da quello già ricordato del novembre del 1978. Non si tratta di colloqui dal contenuto “facile”, anche se corretti nella forma. Alla sollecitazione a riconoscere il diritto dell'esistenza di Israele, la risposta è che Tel Aviv ha finora disatteso le risoluzioni delle Nazioni Unite sul ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati; all'invito di dare di lui un'immagine diversa da quella di “sovventore di turbolenze”, Gheddafi risponde che la Libia condanna il terrorismo ma non la lotta per l'indipendenza dei popoli; alla tesi secondo la quale Comiso, diventata la base per lo spiegamento dei cruise, rappresenta, data la vicinanza geografica, una minaccia diretta per la Libia, Andreotti replica che l'Italia persegue la politica della distensione diretta con tutti e che la scelta di Comiso dovrebbe preoccupare la Libia, che è un Paese non allineato, almeno quanto gli Ss20 sovietici.
Andreotti insiste sulla necessità di creare un nuovo rapporto fra Roma e Tripoli e le ragioni storiche e umane che spingono Gheddafi a chiedere il risarcimento dei danni subiti dal suo Paese a causa dell'occupazione italiana (sulla base di un ragionamento secondo cui la condanna del colonialismo dovrebbe assumere una valenza universale e comportare di conseguenza una pena internazionale) appaiono al ministro degli Esteri italiano comprensibili; anche se poi, ricordando il pagamento degli indennizzi operato dal governo all'epoca del re Idris, dichiara che non gli è possibile seguire il leader libico nelle sue conclusioni. Di qui l'idea che sia opportuno, proprio per togliere il veleno dai rapporti bilaterali, compiere un gesto (un centro cardiologico? Colonie marine e montane per i bambini libici?) che faciliti la rappacificazione e “dimostri l'animo amichevole e solidale dell'Italia democratica”. Un'offerta, questa, che lascia l'interlocutore libico tutt'altro che insensibile e che sarà ripresa, prima, da Lamberto Dini nella sua veste di ministro degli Esteri e, poi, da Silvio Berlusconi quale presidente del Consiglio.
E' stato osservato che Gheddafi non ha mai cessato con i suoi comportamenti di meravigliare e di cogliere tutti di sorpresa. Se nel 1985 il Dipartimento di Stato pubblica un Libro Bianco nel quale viene illustrata, con dovizia di particolari, l'opera di destabilizzazione internazionale attuata dalla Libia, a partire dal 1986, dopo il bombardamento americano di Tripoli e di Bengasi, il leader libico comincia a inaugurare una linea di moderazione, contrassegnata, come non mancherà di ricordare nel 1989 il presidente del Consiglio italiano, dai seguenti fatti:
La fine delle ostilità nel Ciad, la collaborazione con la Tunisia ed il Marocco, l'incontro con Mubarak e il ritiro dei soldati inviati in Libano -ma, aggiunge Andreotti con evidente riferimento alle manifestazioni per rivendicare gli indennizzi per i danni causati durante il periodo coloniale e la guerra mondiale- accentuando i toni di propaganda contro l'Italia, eccitando vecchi risentimenti e confondendo problemi e tempi storici. L'Italia non ha mai raccolto provocazioni come si addice a una democrazia seria e responsabile.
Allo scoppio della Prima guerra del Golfo, Gheddafi condanna l'invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein aggiungendo, però, che “anche l'America ed i suoi alleati commettono un'illegalità intervenendo militarmente nel Golfo Persico”: esplicito riferimento alla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza che contempla il boicottaggio economico e diplomatico di Bagdad ma non misure di carattere militare.
Nell'incontro del 4 dicembre del 1993, a distanza di circa otto mesi dall'applicazione delle sanzioni decise dal Consiglio di sicurezza a causa delle responsabilità libiche per l'esplosione il 21 dicembre del 1988 del Jumbo della Pan Am, Gheddafi, rispondendo a una domanda rivoltagli dal direttore della rivista “30 Giorni”, dirà:
Temo che avvenga una guerra religiosa a livello mondiale, alla quale non potremo opporci (.). Con rammarico devo dire che in Occidente c'è chi sta battendo i tamburi di questa guerra (…). Non è soltanto la questione di Lockerbie (…). Il massacro non ha forse lasciato vittime e cittadini colpiti? E' questo che crea odio. Sembra che le loro vite siano umane, mentre le nostre sono delle bestie (…).
C'è nel Medio Oriente la convinzione diffusa che gli arabi siano sempre concordi nel non andare mai d'accordo tra loro; mentre se si tratta di schierarsi contro qualcun altro, siano essi israeliani o americani, la disponibilità, cui può fare difetto però il coordinamento dell'azione, è totale. Di qui la difficoltà di creare l'unità araba su basi solide e durature: un esempio è fornito dal tentativo di Nasser di dare vita alla Repubblica Araba Unita, risoltosi nel giro di poche anni in un fallimento; né migliore esito hanno avuto il “disegno” di una federazione giordano-palestinese e i tentativi di Gheddafi per unire Libia e Tunisia.
Neppure l'appartenenza all'Islam è un collante decisivo, dato che sono gli interessi concreti, propri di questo o di quel popolo, ad avere la meglio. Quando i leader dell'Arabia Saudita e dell'Egitto chiamano a raccolta gli altri stati della regione in nome dell'unità araba per resistere alle interferenze e all'espansionismo di Teheran sul problema palestinese, tracciano una linea di separazione netta tra ciò che è arabo e ciò che è iraniano anche se l'elemento islamico continua a fare da sottofondo. Naturalmente, la divisione fra sciiti e sunniti non va sottovalutata, ma è difficile sostenere che il mondo arabo sia retto soltanto dalla religione. Per gli arabi, dunque, la costruzione di uno stato islamico è sicuramente cosa assurda e Giulio Andreotti trova nei suoi interlocutori in Medio Oriente orecchie attente quando insiste sulla necessità non soltanto di condannare il fondamentalismo islamico ma, soprattutto, di mantenere distinta la politica dalla religione.
L'unità, dunque, tra i Paesi arabi quale strumento operativo per giungere alla pace non può costituire un dato di fatto: è, semmai, un fine, per quanto circoscritto. Giulio Andreotti lo sa bene e l'obiettivo della sua azione politica è piuttosto quello di riuscire a superare, in nome del fine ultimo, i rifiuti, le divisioni, le diffidenze, i sospetti e le riserve mentali. Insomma, bisogna, anzitutto, creare un minimo comune denominatore rimuovendo gli ostacoli e costruendo così un clima di comprensione: i seguiti, che rappresentano i fini cui ambire, verranno in un secondo tempo purché, naturalmente, alla comprensione si aggiunga la condivisione. Si tratta, in ultima analisi, di sviluppare quello che Jacques Darrida definisce il “sentimento dell'ospitalità” non tanto quale “riconoscimento dell'altro” inteso come presa d'atto di origini, di tradizioni, di culture e di sentimenti differenti dai nostri, quanto, piuttosto e soprattutto, “riconoscimento dell'altro” perché nostro simile, cioè “nostro” perché eguale a noi.
Un proverbio cinese dice: ”Quando il vento cambia di direzione c'è chi pensa ad alzare muri e chi, invece, a costruire mulini. Per Giulio Andreotti non c'è possibilità di scelta: alzare barriere materiali e immateriali per impedire che altri entrino nel tuo territorio non può rappresentare un'alternativa valida rispetto all'impegno di strumenti in grado di generare un consenso generale per affrontare tutti insieme le sfide della sicurezza, della povertà, del terrorismo e dell'insufficienza di risorse idriche. Costruire mulini è dunque una necessità non un optional, anche e soprattutto nel Medio Oriente.
In quale cornice si colloca la politica italiana verso l'area mediterranea? “L'Italia -sostiene Andreotti- non persegue affermazioni di prestigio o secondi fini (…) ed i suoi sono scopi di pace coincidenti con l'interesse nazionale alla stabilità dell'area”. Del resto, la sensibilità del nostro Paese verso il Vicino Oriente ha radici antiche e già Truman nel 1947, nell'enunciare la sua “dottrina” verso l'Europa, riconosceva “la vitale importanza dell'Italia in relazione alla politica degli Stati Uniti nel Mediterraneo”.
Come -si chiede sempre Andreotti- abbiamo interpretato la nostra missione se non prestando attenzione ai mutamenti profondi verificatisi nella regione e sapendo cogliere, forse meglio di altri, le implicazioni della decolonizzazione, come punto di partenza per un nuovo rapporto fra le due sponde del Mediterraneo? La ricerca della pace e del benessere per tante popolazioni duramente provate dalle vicende storiche conduce dunque a operare per rimuovere inimicizie secolari e per sostituire alla forza la collaborazione come premessa della stabilità.
Comprendere le ragioni degli uni e degli altri per cercare, poi, di scoprire eventuali punti di incontro: opera non facile soprattutto se guardiamo al conflitto che oppone gli arabi agli israeliani, che, come Andreotti torna a ripetere, è essenzialmente conflitto tra due ragioni.
Se, da un lato, è importante favorire senza preclusioni il dialogo tra tutti i popoli o eventuali interlocutori di pace, dall'altro, la nostra complessa identità -a un tempo mediterranea, europea e atlantica- porta a prendere in considerazione tutta una serie di fattori, frutto non soltanto della collocazione geografica o delle tradizioni storiche; ma anche e soprattutto di una cosciente scelta politica: di questi fattori il primo da tenere presente è l'Unione europea che ha il Mediterraneo come confine meridionale e “il cui peso ed il cui esempio di associazione di popoli di diverse origini, con una storia di guerre e di riconciliazioni, che ha saputo ricondurre il tutto ad un ordine comune”, non possono risultare indifferenti anche per un Paese come Israele per il quale è difficile pensare se stesso al di fuori di un ambiente ostile.
Andreotti ha cura di precisare che la ricerca di una contrapposizione tra “vocazione europea” e “vocazione mediterranea” dell'Italia ha carattere pretestuoso; se è vero che a questa contrapposizione si fa spesso richiamo, si tratta di “un vero artificio polemico, frutto più dell'immaginazione e di altri obiettivi che di un esame sereno della realtà”.
Né abbiamo mai pensato -scrive Andreotti nel luglio del 1989- proprio perché in politica estera il velleitarismo è sterile e anche pericoloso, che la nostra potesse essere una politica indipendente da quella degli Stati Uniti, in una regione così rilevante per gli equilibri globali o verso un paese come Israele così profondamente legato al nostro principale alleato.
Più in generale l'esperienza del passato rafforza Giulio Andreotti nella convinzione che la nostra politica estera abbia il suo “polo di attrazione” nella politica di Washington e che, al pari della politica europea, non possa, con i dovuti distinguo essere anti americana. Come non vi può essere contrapposizione, nell'ambito di questa politica, tra dimensione europea e dimensione mediterranea, così la “teoria del pendolo”, la pretesa ricorrente oscillazione della posizione dell'Italia tra il continente e la sponda sud del Mediterraneo, è del tutto fuorviante, dato che l'Unione europea ha anche una componente “meridionale”, un valore aggiunto che costituisce da sempre parte integrante della sua proiezione esterna.
Tuttavia, in momenti particolarmente delicati come quelli dell'attacco aereo israeliano alla sede dell'Olp di Tunisi, del sequestro dell'Achille Lauro e del bombardamento americano di Bengasi e di Tripoli, il governo italiano ha ritenuto che, nell'ambito di una concertazione costante, fosse nell'interesse di tutti esprimere punti di vista divergenti. Ad Andreotti piace ricordare come proprio l'atteggiamento dell'Europa non sia stato senza conseguenze sull'evoluzione della politica di Washington verso il Medio Oriente, in particolare nell'apertura di un dialogo con Arafat, nel riconoscimento da parte dell'Olp di Israele e nella rinuncia della stessa OLP al terrorismo.
Quando Giulio Andreotti, non più presidente del Consiglio, si reca nel novembre del 1993 a Tunisi, a distanza, dunque, di pochi mesi dalla cerimonia ufficiale di firma degli Accordi di Oslo (13 settembre), si può cogliere nelle parole del presidente dell'Olp non soltanto il senso di soddisfazione per l'intesa raggiunta e la speranza che ciò che è stato concordato sulla carta trovi applicazione e attuazione; ma anche il riconoscimento del fatto che “i palestinesi hanno sempre contato sull'aiuto del governo e del popolo italiano”. Arafat ne trae la conclusione: “l'Italia è come se fosse un paese arabo. In confidenza, potrei dire che è il migliore paese arabo. Lei, in particolare, ci manca molto...”.
Per quanto “complicato”, il conseguimento della pace attorno al Mediterraneo deve poter contare su un “idem operare” della Comunità internazionale e, quindi, anche sul concorso attivo dell'Unione Sovietica (ai tempi della Conferenza di Ginevra) prima, e della Russia (ai tempi della definizione da parte del Quartetto della Road Map), poi. Ma i problemi dell'area e, in particolare, il problema centrale palestinese non possono trovare soluzione se non in un contesto nel quale siano coinvolti simultaneamente tutti i Paesi arabi, nessuno escluso. Andreotti, quindi, non condivide affatto l'idea di coloro che puntano sulla divisione del mondo arabo anziché sulla sua unità perché ritiene che il processo di pacificazione debba collocare tutti gli interessati sullo stesso piano, senza distinzioni tra vincitori e vinti. Insomma, la debolezza dei propri interlocutori non è necessariamente un punto di forza.
Certamente Giulio Andreotti ha presente la reazione negativa provocato in tutte la capitali del Medio Oriente dall'intesa tra Sadat e Begin e ricorda altresì la tenace opera di convinzione da lui svolta nel giugno del 1991 nei confronti di Assad per indurlo a non “mettere i bastoni fra le ruote” nel delicato processo negoziale appena apertosi con la Conferenza di Ginevra: convinzione che aveva prodotto quel risultato positivo, richiesto al presidente del Consiglio italiano sia da Washington sia da Mosca, concretizzatosi nell'assicurazione fornita al presidente siriano, fermamente intenzionato a “non fare la fine degli Orazi e dei Curiazi”, che il suo Paese non sarebbe stato lasciato in disparte nel processo di pace.
I problemi, soprattutto del Vicino Oriente, sono molteplici e per ciascuno di essi va trovata pazientemente la soluzione giusta ricorrendo agli strumenti ritenuti più appropriati. Così, per quanto riguarda i rifugiati palestinesi in Libano, Andreotti non crede che si possa “risuscitare” uno schema del tipo di quello proposto da Theodor Herzl a sesto Convegno sionista -ma subito abbandonato per la sua evidente impraticabilità- che era consistito nel prospettare la creazione di un foyer ebraico in Uganda; invece, intravvede una via d'uscita a questa tragedia in un forte intervento da parte dell'Organizzazione delle Nazioni Unite attraverso l'Unrwa, l'Agenzia specializzata che, a suo avviso, non dovrebbe certo “limitarsi ad offrire soltanto sussidi alimentari”.
Le soluzioni proposte da Andreotti possono anche apparire, a prima vista, “audaci” ma, se viste in una prospettiva di sofferta e paziente maturazione delle vicende umane, si fondano sulla necessità di evitare i massimalismi intransigenti, da qualunque parte questi ultimi provengano e qualunque ne sia il tema, dalla “statualità” della Palestina alla sicurezza, dalla sorte dei rifugiati allo statuto di Gerusalemme. Come affrontare, allora, i massimalismi -le “chiusure che ti arrivano addosso quando meno te lo aspetti”- se non praticando non già l'equidistanza, bensì la ”equivicinanza” ispiratagli dall'ambasciatore di Israele presso la Santa Sede? In ultima analisi -continua Andreotti- “non si può pensare di risolvere i problemi dicendo semplicemente o sei con i palestinesi o sei con gli israeliani”.
A Giulio Andreotti si rimprovera di “stare dalla parte degli arabi”: eppure, egli non si esime dal rimproverare anche a questi ultimi il loro “massimalismo”. Così, ricorda come Nasser, con il quale ha passato ad Alessandria d'Egitto un intero pomeriggio, fosse infatuato dalla passione per i “non allineati”, in primis Tito; al punto tale, però, che, avendo accentuato troppo l'aspetto politico di quel movimento, le riforme interne da lui promosse nel settore dell'insegnamento avevano avuto come risultato di fare perdere all'Università del Cairo quel ruolo di punta di eccellenza culturale che a quest'ultima era stato riconosciuto non soltanto nel Medio Oriente.
E ancora. La dichiarazione con cui la Lega araba a Beirut ha condizionato il riconoscimento dello Stato di Israele alla creazione di uno Stato indipendente palestinese e all'effettuazione del ritiro di Israele dei territori occupati a partire dal 1967 viene considerata da Andreotti come “troppo rigida” essendo inopportuno sottoporre il riconoscimento di Israele a condizioni precise (“se non ti ritiri, non dialogo e non ti riconosco”).
Due brevissime considerazioni a conclusione di questa riflessione, una di carattere personale e l'altra metodologica.
Nella visione che Giulio Andreotti coltiva delle vicende umane c'è sempre la forte componente della speranza. A chi incombeva il ruolo, nel periodo compreso tra il 1983 e il 1989, di coordinare progetti d'intervento parlamentare per il ministro degli Esteri era ben presente la necessità di sostituire nel testo dei progetti stessi il termine “problema” con quello, assai meno contundente e più suscettibile di sviluppi positivi, di “tema”; eppure, secondo la memoria di chi scrive, ci fu una volta in cui Giulio Andreotti preferì vergare di suo pugno il termine “problematica”: si trattava di illustrare davanti alle Commissioni congiunte Affari esteri e della Difesa del Senato le difficoltà connesse al processo di riconciliazione nazionale del Libano!
L'ultima considerazione attiene, come ho detto, al modo di affrontare la tematica mediorientale: “Il punto di partenza -sostiene Giulio Andreotti- deve essere riportato al 1948 quando l'Onu aveva creato lo Stato di Israele e lo Stato arabo. Solo che uno c'è e l'altro non c'è. Non bisogna dimenticarlo. Altrimenti si lavora solo di fantasia”.
Luigi Guidobono Cavalchini